Mercurio

 

 

Mercurio è il pianeta più interno del Sistema Solare. La sua orbita ha un semiasse maggiore di 0,387 unità astronomiche (1 U.A. = 149,6 milioni di km), un'eccentricità di 0,206 e un'inclinazione di circa 20° rispetto al piano dell'eclittica. Il Sole è così vicino al pianeta che un astronauta atterrato su Mercurio lo vedrebbe 2 volte e mezza più grande e 7 volte più luminoso che sulla Terra. Il moto orbitale di Mercurio ha rivelato una piccola discrepanza rispetto alle predizioni della meccanica newtoniana: come per gli altri pianeti, la direzione del perielio (il punto di maggiore vicinanza al Sole) varia lentamente nel tempo, ma la corrispondente velocità di precessione è più alta di 43 secondi d'arco per secolo rispetto a quanto la meccanica classica prevede come risultato dell'attrazione gravitazionale degli altri pianeti. Questa "precessione anomala", di entità minuscola (corrisponde a un giro completo in 3 milioni d'anni!), scoperta a seguito di osservazioni molto precise ottenute durante i transiti del pianeta davanti al disco solare, è stata spiegata in modo soddisfacente soltanto dalla teoria della gravitazione di Einstein (1a relatività generale del 1916).

Rotazione e orbita

Prima degli storici sorvoli del Mariner 10 poco si sapeva del pianeta più prossimo al Sole. Generazioni di osservatori si erano succedute cercando di determinarne i parametri fisici fondamentali, quasi sempre senza ottenere risultati apprezzabili. Ma in un caso importante la deduzione di uomini intraprendenti aveva permesso alla fine di sciogliere l'enigma della rotazione di Mercurio prima che il pianeta fosse raggiunto da una sonda spaziale. Nella storia della scienza è capitato spesso che si sia trovato ciò che ci si aspettava di scoprire anche quando la realtà era un'altra: una teoria convincente può infatti esercitare su uno scienziato un condizionamento tanto forte da fargli notare solo i fatti che si accordano con essa e non quelli che la contraddicono. Ciò è accaduto in parte anche per la rotazione di Mercurio.

Nel XIX secolo gli astronomi erano infatti giunti alla conclusione che le maree sollevate dal Sole su Mercurio dovevano averne da lungo tempo sincronizzata la rotazione con il periodo orbitale. In altre parole, il pianeta avrebbe dovuto rivolgere sempre la stessa faccia all'astro diurno, così come gran parte dei satelliti naturali fanno nei confronti del loro primario. Ciò avrebbe avuto delle conseguenze notevoli per il piccolo corpo celeste: un emisfero sarebbe stato permanentemente immerso nella luce solare, mentre l'altro sarebbe stato avvolto da un'ombra perenne. A parte due sottili spicchi di longitudine che, a causa dell'eccentricità dell'orbita, avrebbero visto il Sole alternativamente levarsi di poco sull'orizzonte per poi scomparire di nuovo, la superficie dell'astro sarebbe stata caratterizzata da temperature estreme, con un emisfero rovente e l'altro gelato. Quando Giovanni Schiaparelli osservò lungamente le elusive macchie di albedo della superficie con il suo rifrattore di 46 cm di apertura, confermò che in effetti il pianeta rivolgeva sempre la stessa faccia al Sole e che quindi completava una rotazione attorno al proprio asse in un periodo orbitale, ovvero in 88 giorni. Per tre quarti di secolo tutti gli astronomi concordarono con le conclusioni dell'italiano e a metà del XX secolo ci fu perfino chi affermò che i moti di rotazione e rivoluzione erano sincronizzati a meno di una parte su mille!

Radarastronomia

Nei primi anni '60 giunse a maturazione una rivoluzionaria tecnica astronomica. Un grande radiotelescopio, attrezzato con un potente trasmettitore, poteva essere trasformato in un radar capace di inviare un fascio di microonde verso un corpo celeste relativamente vicino per poi captarne l'eco. Il segnale riflesso avrebbe permesso di misurare più precisamente le distanze nel Sistema Solare, oltre che determinare le caratteristiche della superficie colpita. Inoltre, misurando lo spostamento Doppler del segnale riflesso, sarebbe stato possibile misurare anche la velocità di rotazione di una superficie planetaria. Ovviamente, la tecnica non era così semplice come potrebbe apparire: inoltre c'è da tenere conto che l'energia dell'eco captata dal ricevitore è inversamente proporzionale alla quarta potenza della distanza: se a parità di tutto si raddoppia la distanza del bersaglio, l'energia del segnale di ritorno si riduce di un fattore 16, il che limita fortemente l'applicazione della radarastronomia a corpi celesti relativamente vicini. Nel 1965 Pettengill e Dyce pensarono di usare l'enorme radiotelescopio di Arecibo, un parabolide di 305 metri di diametro ricavato in un avvallamento naturale del terreno nell'isola di Porto Rico, come un gigantesco radar per lo studio di Mercurio. Utilizzando un trasmettitore con una potenza di uscita di circa un milione di Watt, indirizzarono verso il pianeta un segnale di frequenza nota, captandone l'eco una decina di minuti più tardi. Dall'allargamento in frequenza misurato, i due astronomi furono in grado di determinare il periodo di rotazione di Mercurio, pari a circa 59. Nel 1971 Goldstein raffini le misure radar, ottenendo il risultato di 58,65 giorni. Infine misurando le ombre fotografate dal Mariner 10 durante successivi sorvoli del pianeta, Klaasen riuscì nel 1976 a ottenere un valore ancora più preciso, pari 58,646 giorni.

Una nuova risonanza

Questo periodo corrisponde esattamente a 2/3 di quello orbitale, il che significa che dopo due rivoluzioni attorno al Sole il pianeta è ruotato 3 volte su se stesso rispetto alle stelle, quando Mercurio passa al perileo il suo asse più lungo è sempre allineato con la direzione del Sole. Per un ipotetico abitante di Mercurio la situazione sarebbe ancora più complicata: infatti, dopo una rotazione del pianeta su se stesso (giorno siderale) sono stati percorsi 2/3 di orbita e il Sole risulta aver percorso nel cielo solo

1/3 di rivoluzione apparente. Pertanto un giorno solare, ovvero il tempo che intercorre tra un mezzogiorno e il successivo, dura su Mercurio 2 anni, oppure 3 giorni siderali. Ma perché il pianeta presenta questa bizzarra relazione tra rotazione e rivoluzione? La risposta va cercata nell'effetto che le maree solari hanno avuto su un corpo non sferico che percorre un'orbita sensibilmente ellittica. Se l'orbita fosse stata quasi circolare, Mercurio si sarebbe effettivamente assestato su un rapporto 1:1 tra periodo di rotazione e di rivoluzione. Ma le maree solari sono più intense quando il pianeta è al perielio e ciò, accoppiato alla forma leggermente allungata del corpo celeste, ha generato una "torsione" tendente ad accelerarne la velocità di rotazione. La risonanza spin-orbita 3:2 appare estremamente stabile. Probabilmente la rotazione si è sincronizzata in meno di un miliardo di anni, mentre l'asse polare si disponeva perpendicolarmente al piano dell'orbita. E poiché un satellite che completi una rivoluzione più velocemente di quanto un pianeta ruoti su se stesso viene fatto precipitare dagli effetti mareali, le eventuali lune di Mercurio si sarebbero dissolte già da molto tempo.

Un pianeta lunare

Da un punto di vista fisico, Mercurio è un corpo piuttosto simile alla Luna, soprattutto per la mancanza di un'atmosfera di densità significativa (sono state rilevate solo tracce di elio, altri gas nobili e sodio). Ha un raggio di 2439 km, pari a circa il 40% di quello terrestre, e una massa di 0,056 masse terrestri: sebbene più grande della Luna, Mercurio è quindi superato in dimensioni dal satellite gioviano Ganimede. La sua alta densità media (5,52 volte quella dell'acqua) suggerisce che esso sia dotato di un grosso nucleo di ferro-nichel, di massa pari forse al 60-70% della massa totale; la presenza di questo nucleo metallico è confermata dall'esistenza di un campo magnetico, di intensità dell'ordine dell' 1% del campo terrestre, che si pensa sia generato, come nella Terra, da correnti elettriche interne. Visto dalla Terra, il piccolo disco di Mercurio mostra l'alternarsi di fasi dovute al variare della geometria Sole-Terra-Mercurio; sulla parte illuminata sono appena visibili delle deboli chiazze, che ricordano i mari lunari. Le condizioni ambientali di Mercurio sono tra le più inospitali esistenti nel Sistema Solare. Quando, per esempio, Mercurio si trova alla minima distanza dal Sole, esso riceve una quantità di energia 10 volte maggiore di quella che giunge sulla Luna : la temperatura sale a mezzogiorno all'equatore fin oltre i 700 gradi centigradi e di notte, viceversa, scende a meno di 100. La sonda della NASA Mariner 10 ha inviato nel 1974 e 1975 i dati più interessanti sul pianeta. La superficie assomiglia a quella lunare per l'abbondanza dei crateri da impatto e per i grandi bacini, di forma approssimativamente circolare e circondati da sistemi di catene montuose ad anello anch'essì dovuti, con ogni probabilità, all'impatto di grossi corpi vaganti, nel periodo dell'intensissimo bombardamento meteoritico seguito alla formazione dei pianeti. Su Mercurio sono anche osservabili strutture geologiche assenti sulla Luna, come un sistema di grandi fratture crostali, generalmente interpretate come indicazioni che il pianeta ha subito un processo di contrazione (3-4 Km), probabilmente per effetto del graduale raffreddamento seguito all'epoca primordiale.

L'esile atmosfera

Diversi ricercatori hanno tentato nel corso degli anni di rivelare qualche traccia di atmosfera sul pianeta, cercando nubi isolate o foschie, righe di assorbimento negli spettri dell'emisfero illuminato o segni di una qualche rifrazione della luce di stelle che si trovassero a passare vicino al bordo. Perfino durante i rari transiti di Mercurio sul disco solare si è tentato di scoprire qualche indizio, ma non sono mai emersi fatti convincenti. Fu lo spettrometro ultravioletto del Mariner 10 a scoprire nell'emisfero buio la leggera fluorescenza prodotta da atomi di elio, idogeno e ossigeno. I dati indicavano la presenza di 4500 atomi di elio e 8 atomi di idrogeno per ogni centimetro cubo, il che corrispondeva ad una pressione atmosferica pari a 0,2 parti per milione (una quantità corrispondente a condizioni di vuoto spinto difficilmente realizzabili nei laboratori terrestri). Nel 1985 uno spettrornetro applicato a un telescopio terrestre venne puntato sul pianeta in pieno giorno, utilizzando un computer per sottrarre l'emissione indesiderata del cielo dal segnale studiato. Sorprendentemente vennero individuate due nette righe di emissione del sodio provenienti dall'emisfero illuminato di Mercurio, ma non da quello in ombra. È stato calcolato che sono necessari almeno 150.000 atomi di sodio a centimetro cubo per spiegare le osservazioni. Probabilmente il sodio e il potassio, scoperto successivamente, sono espulsi dalle rocce del suolo dall'impatto incessante delle particelle cariche provenienti dal Sole.

Come la Luna

Nel corso di tre sorvoli a meta degli anni '70 il Mariner 10 ha fotografato circa la metà della superficie di Mercurio. L'aspetto ricorda quello del nostro satellite naturale, con crateri di tutte le dimensioni che dominano il paesaggio. Un'osservazione attenta rivela comunque alcune sottili differenze. Poiché la forza di gravità di Mercurio è due volte quella della Luna, il materiale espulso dagli impatti è ricaduta più vicino ai crateri e quindi potrebbero ancora esistere tratti di crosta originaria non ricoperti dai detriti. Anche le montagne sono più basse. Esistono diversi bacini da impatto con un diametro superiore ai 200 km. Il più grande di tutti è stato battezzato Caloris e ha un diametro di 1300 km. Circondato da un anello di montagne alte 2 km, ricorda i bacini lunari Mare Imbrium e Mare Orientale e sembra essere stato riempito di lava subito dopo la sua formazione. Le decise somiglianze con la Luna fanno ritenere che i due corpi abbiano avuto una storia simile: a un intenso bombardamento primordiale, durato fino a 3,9 miliardi di anni fa, sarebbero seguiti degli episodi vulcanici con risalita di magma in superficie. Questa fase si sarebbe però interrotta prima su Mercurio, a causa di una contrazione generalizzata del pianeta, imputabile probabilmente al raffreddamento del mantello. Le numerose scarpate che ne attraversano tutta la superficie indicano infatti un collasso della crosta dovuto a una contrazione del raggio valutabile in 3-4 km. Come rilevano le scarpate superficiali.

Utilizzando i principi fondamentali della geologia, secondo i quali gli aspetti più antichi di un territorio sono soggetti a essere trasformati da quelli più recenti, alcuni scienziati avanzano l'ipotesi di dividere la storia di Mercurio in 5 periodi. Il primo è quello relativo allo stadio più antico del Sistema Solare. E' il periodo della condensazione dei gas della nebulosa solare in corpi solidi, cui seguì un secondo periodo, in cui si verifico un intenso bombardamento da parte di grandi corpi di origine sconosciuta. In questo periodo si sono formate superfici fittamente cosparse di crateri e i grandi bacini. Durante questa fase si verificò il progressivo raffreddamento del pianeta dovuto alla sua relativa piccola massa, che si contrasse, provocando il corrugamento della crosta. Su tutta la superficie planetaria si formarono ripide scarpate quando parti della crosta furono spinte per processi di contrazione della superficie o per forse interne verso l'alto, in alcuni casi con fenomeni di sovrascorrimento delle zone adiacenti. L'impatto che diede inizio al gigantesco Mare Caloris segno l'inizio del terzo periodo, durante il quale si formarono le montagne che circondano il bacino, il bacino stesso e le modificazioni della superficie del cratere più antico di cui si possono individuare le tracce per una lunghezza che supera i mille chilometri. Questa fase fu di breve durata. Il quarto fu il periodo dei fenomeni vulcanici di vasta portata, che formarono estese pianure prive di rilievi. Questo periodo durò probabilmente un miliardo di anni. L'ultimo periodo mostra condizioni di calma relativa. Non si sono avuti episodi di vulcanesimo e soltanto un numero ridotto di corpi è entrato in collisione con il pianeta. Durante questo periodo si sono formati i caratteristici crateri percorsi da solchi chiave in posizione radiale. Questa epoca abbraccia un arco di tempo che va da 3 miliardi di anni fa a oggi.

Ma l'interno è terrestre

Per quanto l'esterno assomiglia alla Luna, l'interno di Mercurio sembra avvicinarsi di più a quello della Terra, di cui ha quasi la stessa densità media. Tre quarti del diametro del pianeta sono occupati da un denso nucleo ferroso, circondato da un mantello di silicati e da una spessa crosta. I silicati si separarono dal ferro subito dopo la formazione del pianeta, quando il corpo celeste era ancora allo stato fuso. L'affondamento del ferro più pesante liberò altro calore, ma Mercurio si raffreddò presto a causa delle piccole dimensioni. La formazione di una spessa crosta probabilmente impedì sul nascere l'avvio di processi geologici quali la tettonica a zolle. Per spiegare l'alta percentuale di ferro rispetto ai silicati, alcuni scienziati hanno ipotizzato che il pianeta sia stato colpito durante la formazione da un planetesimo più piccolo che avrebbe proiettato nello spazio gran parte del mantello silicatico. Un altro paradosso è rappresentato dal fatto che secondo i calcoli l'interno dovrebbe ormai essersi completamente solidificato. D'altra parte, se ciò fosse avvenuto, il raggio di Mercurio dovrebbe essersi contratto di una quarantina di chilometri, e non di 3-4 come rivelano le scarpate superficiali.

L'inatteso campo magnetico

Un nucleo completamente solido mal si concilierebbe anche con l'accertata presenza di un campo magnetico. Infatti, un nucleo di ferro liquido in rapida rotazione è considerato un requisito indispensabile per la generazione di un campo magnetico nei pianeti terrestri. Tuttavia Mercurio ruota anche troppo lentamente su se stesso, per cui l'origine del suo campo magnetico rimane avvolta nel mistero. Forse c'entra il vento solare o forse i nostri modelli sono in parte sbagliati. Il campo è sorprendentemente intenso, pari a un centesimo di quello terrestre. Il suo asse coincide con quello di rotazione e la polarità è orientata come sulla Terra dove il nord magnetico corrisponde al sud geografico.

 Torna alla pagina di Andromeda